Partiamo anzitutto da quello che siamo diventati. Da decenni si assiste ad un imponente fenomeno di «individualizzazione»: vi è ormai una consolidata tendenza ad inquadrare la propria realizzazione personale in un orizzonte di tipo quasi esclusivamente «privato»; affidiamo in maniera spontanea le nostre aspettative di felicità principalmente ai traguardi che taglieremo nella nostra carriera, alla qualità del nostro inserimento nella cerchia di persone che ci interessano, all’intensità delle nostre relazioni amorose, alla cura del nostro benessere. Questo processo di individualizzazione, prima che una tipologia morale (rifiutarsi di pensare a qualcosa o a qualcuno) è piuttosto una dinamica sociale che influenza «sotto pelle» le nostre esistenze e i nostri progetti di vita. Durante la loro crescita i giovani ritrovano nella società questa impostazione e l’abbracciano ma semplicemente «perché non è stato consegnato loro nessun altro orizzonte in cui inquadrare la propria vita» (A. Bloom). Non fa più parte del nostro patrimonio comune l’idea che la riuscita personale stia in qualcosa che sì, ci coinvolga personalmente, ma allo stesso tempo ci trascenda, come ad esempio la possibilità di contribuire alla costruzione del destino concreto di una comunità, al progresso della scienza, al bene del proprio paese, della Chiesa o anche della famiglia, intesa non solo come luogo privato di affetti e interessi, bensì anche come corpo di persone indissolubilmente legate tra loro. Nel nostro patrimonio culturale si è creata una fortissima tendenza a concepire, almeno in prima istanza, le nostre realizzazioni su un piano strettamente personale: le mie relazioni e il mio lavoro, la mia salute e i miei viaggi, i miei obiettivi e i miei interessi. Qualcosa si è guastato se nel 1918 ci si riconosceva nel destino della patria o della famiglia, nel 1968 si lottava per un mondo migliore, mentre oggi si pensa principalmente a se stessi!

Senza entrare nel dettaglio possiamo dire che è venuto meno ciò che appariva come un riferimento «rigido» a istituzioni, culture, appartenenze o ideologie. Con la crisi delle grandi narrazioni – anche quella della religione – le nostre esistenze sono segnate da un certo disincanto, assumendo il marchio della relatività, della rivedibilità, della «fluidità». Rispetto alla trasmissione dei grandi valori conta molto il fatto di avere la libertà di esprimerci e la possibilità di fare esperienze tra loro diverse. In questo quadro i rapporti interpersonali vengono orientati alla «morbidezza»: alle relazioni chiediamo, innanzitutto, di darci benessere psicologico e da esse ci aspettiamo di ricevere solo piacevolezza. E cosa c’è di più piacevole della rappresentazione che riusciamo a farci e a dare di noi stessi? Per questa ragione la nostra cultura è divenuta narcisistica ed è caratterizzata da un forte ripiegamento su se stessi, dalla difficoltà di mettersi nei panni degli altri, dall’attenzione eccessiva alla propria salute, dal terrore per la vecchiaia e per la morte. Soprattutto siamo spinti a credere che solo la nostra immagine e le nostre realizzazioni siano la chiave di svolta della vita, mentre il confronto con la realtà, con gli altri in carne ed ossa, blocchi la nostra crescita. Si pensi alla tirannia dei propri momenti di vita che nell’era di Instagram è divenuta una dittatura virtuale.

Eppure, prima ancora di sondare le pagine del Vangelo, nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill diceva: «Sono felici, credo, solo quelli che hanno il loro pensiero fissato su oggetti diversi dalla propria felicità, perseguendoli non come mezzo, ma come ideale fine a se stesso. Mirando così a qualcos’altro, essi trovano la felicità sul loro cammino. […] Chiedetevi se siete felici e cesserete subito di esserlo» (Autobiografia).

Il punto cruciale è che il processo di individualizzazione spinge l’Io a incentrare tutto l’orizzonte di senso su se stessi e sui propri obiettivi, e lo fa offrendogli un piano de-regolato, debole e fluido di punti di riferimento. Lentamente la promessa che l’individuo possa farcela da solo scivola sottilmente nell’idea che debba farlo. Ma di fronte agli imprevisti della vita l’individuo rimane schiacciato e così il suo morale prende ad oscillare spaventosamente tra ottimismo e pessimismo, depressione e eccitazione, abbattimento ed euforia, senso di vuoto e progetto costruttivo, diventa «uno yo-yo» (cf. Lipovetsky).

Il punto più delicato riguarda la promessa di felicità che l’individualizzazione porta con sé. Difatti alla base della nostra ricerca della felicità non sta semplicemente il riempimento delle nostre attese di soddisfazione, ma anche – e forse soprattutto – la consapevolezza di dedicare il nostro tempo e le nostre energie alla realizzazione di qualcosa che abbia senso e valore, qualcosa a cui valga la pena orientare i nostri talenti e il meglio di noi stessi; qualcosa che ci faccia diventare un certo tipo di persona, in cui ci possiamo riconoscere. Ovviamente saremmo pensatori sciocchi se credessimo che la soluzione sia semplicemente tornare indietro, anche perché non siamo di quelli che credono che “si stava meglio quando si stava peggio”. Negli anni addietro c’era un maggiore senso comunitario ma l’autorità dei genitori e degli educatori era gestita con maniere spicce; c’era una maggiore concentrazione sulla patria e sulla religione ma spesso tutto scadeva in retorica. Piuttosto si tratta senz’altro di mettere al centro l’individuo, la persona, i suoi talenti, ma questo risulta impossibile se l’individuo si concepisce come un microcosmo tutto impegnato nella costruzione della propria gabbia dorata. Abbiamo bisogno di relazioni di valore e di destinazioni credibili, che possono essere costruite solo andando in profondità.

Pertanto l’analisi del «disagio della modernità» ci dà un messaggio molto chiaro, che vale la pena mettere bene a fuoco: «per la maggior parte di noi, le più grandi felicità e infelicità non sono tanto condizionate dall’acquisizione di cose, ma, piuttosto, dal rapporto con se stessi e con il prossimo» (Lipovetsky).

Il salto di qualità per emergere dal predominio della individualizzazione è la capacità di proporre il cammino con Dio come una sinfonia: ognuno è chiamato nella propria individualità ad accordarsi con altre voci perché l’insieme è la realizzazione autentica. La bibbia è piena di questi riferimenti.

La nostra fede in Dio Trinità quale comunione di persone è la matrice su cui impostare un autentico percorso di crescita per i giovani. La creazione della donna nel racconto del libro della Genesi (2,18-25) rende visibile che ogni individuo non detiene gli strumenti per essere felice da solo, ma solo nella relazione l’Io si sente a suo agio. La composizione dell’equipaggio dell’arca di Noè («di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie», Gn 6,17-19) rappresenta il desiderio di prolungare la vita nel completarsi con l’altro e con gli altri. Dio fa uscire dall’Egitto una porzione di popolo e lo guida attraverso Mosè nella Terra promessa: i quarant’anni di pellegrinaggio nel deserto sono il tempo per purificarsi e trovare come popolo le ragioni per restare fedeli all’alleanza con Dio. La missione dei Profeti in Israele è tutta orientata a riportare il popolo in un cammino d’insieme avendo Jahwè come Signore.

La vita di Gesù è tutta orientata in chiave sinfonica: il nascere in una famiglia, lo scegliere una comitiva per diffondere il suo messaggio, il morire come offerta di una relazione definitiva d’amore.

Anche nel resto della letteratura del Nuovo Testamento, pur tenendo conto delle enfatizzazioni, emerge una chiamata al camminare insieme in Cristo verso la salvezza: «È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tito 2,11).

Proporre una chiave sinfonica alla vita dei giovani è compito indispensabile per salvaguardarli dall’impero del particolare. Ora, la chiave sinfonica per eccellenza è Gesù Cristo: rispettoso delle caratteristiche di ognuno dei suoi, animatore e motivatore in prima persona, esempio di come coniugare i momenti di riflessione e preghiera personale con quelli di vita comunitaria, capace di rimanere fedele al progetto del Padre senza scadere nelle mode temporanee.

A questo livello la proposta di un vero cammino sinfonico dipende più dai direttori che dagli orchestrali. Mi limito a indicare le tre fasi di un cammino armonioso.

Individualizzazione: si deve partire dall’individuo. Bisogna conoscere bene la storia di un giovane, ascoltarlo molto a principio, condividere molti momenti in cui si senta al centro dell’attenzione, cogliere gli aspetti positivi e negativi, i suoi lati oscuri, le ridondanze, i freni, i meccanismi principali, e avvolgerlo di un sano senso di paternità in cui la sua specificità scopra di poter superare la paura di fare qualcosa di più grande.

Inserzione: rispettando i tempi di crescita di ognuno gli si propongono passi di apertura, si educa al dono, al valore del sacrificio, alla disponibilità. In questa fase è fondamentale che non emerga in alcun modo la fretta, né un celato interesse, ma il singolo percepisca sempre la sua centralità, anche se rispetto alla prima fase non è più rivolta a se stesso ma ha orizzonti più ampi.

Armonizzazione: è il tempo in cui le capacità del singolo, dopo aver sperimentato la ricchezza del servire gli altri ed essersi liberati dal peso di dover fare tutto da soli, vengono lentamente inserite in un progetto più ampio, non generico, ma ben puntualizzato. Se si parla di evangelizzazione bisogna sapere come si vuole svolgere in quanto progetto d’insieme? Se si sviluppa un progetto di carità occorre conoscere le tappe e i vari passaggi. Una sinfonia non è volere per forza fare tutto, ma fare poche cose nel miglior modo possibile.

Questi temi vanno poi sviluppati e magari questa potrebbe essere una pista per ulteriore riflessione. Resta fondamentale il ruolo che non si può improvvisare, tanto più nei confronti dei giovani.

Vittorio Zeccone