“E” come “effatà”. Spieghiamo prima di tutto il termine. Nella lingua aramaica, parlata da Gesù, significa «apriti». Il Signore la usa per operare la guarigione di un sordomuto così come riporta l’evangelista Marco: «E prendendo in disparte il sordomuto, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè «Apriti». E subito gli si aprirono gli orecchi» (7,33-35). Papa Benedetto XVI ha spiegato il senso di questo termine e le sue parole ben si applicano al cammino di un giovane credente: «Questa piccola parola – effatà/apriti – riassume tutto il messaggio e tutta l’opera di Cristo. C’è una chiusura interiore, che riguarda il nucleo profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il «cuore». È questo che Gesù è venuto ad «aprire», a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri… Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, diventi capace di ascoltare la voce di Dio, la voce dell’amore che parla al suo cuore e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell’amore, a comunicare con Dio e con gli altri».
Prima di qualsiasi scelta di fede il giovane ha bisogno di intraprendere un cammino di apertura del cuore che si traduce in una visione del futuro positiva e contraddistinta dalla consapevolezza che è necessario anche il suo contributo per rendere la vita bella. La società tecnologica – invece – sortisce il tremendo effetto di trasformare i nostri giovani in esseri tutti ripiegati sui cellulari o protagonisti di giochi virtuali. Sembra che lo sviluppo della tecnica – quando incontra l’intelligenza effervescente dei nostri ragazzi – riesce ad ingabbiarla con joystick e tastiera, attraverso ossessivi touches su ogni tipo di strumento. I giovani non parlano più delle persone o delle realtà concrete che hanno conosciuto e di cui hanno fatto esperienza, ma solo di nuove app, di nuovi social e dell’ultimo sito di incontri. L’universo relazionale non passa più attraverso i sensi, ma è rinchiuso in un algoritmo che anticipa, condiziona e sottolinea i passi da compiere. Il tutto sempre e solo in rete. Ed il futuro prossimo va già oltre: diversi anni or sono parlando con un neuropsichiatra a margine di un convegno mi accennava come in laboratorio si lavori da tempo sulla possibilità di declinare le emozioni per i robot…
Ma è davvero possibile prescindere dall’esperienza del cuore toccato dalla meraviglia? Può la nostra vita fare a meno del tocco originale dell’altro? E soprattutto: il cuore potrà mai aprirsi in base ad una tecnica o per una frequentazione virtuale? Sappiamo che l’amore non è dialettizzabile: lo si descrive ma non lo si coglie nel suo sorgere; ne parliamo a ragion veduta solo dopo aver constatato un vero mutamento in noi; è fonte anche di sofferenza ma rimaniamo comunque col desiderio di sperimentarlo di nuovo. «Fatti non foste a viver come bruti» scriveva Dante nel XXVI canto dell’Inferno. Oggi questa bruttezza è divenuta la conoscenza delegata, l’esperienza ridotta a bytes. I risultati di questo modo di esperire l’amore sono sotto gli occhi di tutti. Vince la malizia perché ha vinto il cuore autocentrato e che per questo ha come must la ricerca del proprio piacere a qualunque costo.
Come attivare un processo di apertura? In che modo possiamo aiutare i giovani che circolano nelle nostre parrocchie a riprendere il contatto con sé stessi? E a cominciare il cammino di «amare il Signore, Dio tuo, con tutto il cuore» (cf. Dt 6,5).
Di tanti passi del vangelo che potremmo considerare prendo spunto dalla guarigione del cieco nato nel capitolo 9 del vangelo di Giovanni. Provo ad enucleare alcuni passaggi.
Il cuore si apre quando è considerato – «Passando vide un uomo cieco dalla nascita». Abbiamo massacrato i giovani sui doveri ed in particolare sui doveri cristiani. Era un modo per rimproverarli su quello che non vedevano. Eppure, nei vangeli è sempre Gesù che vede per primo, che fa’ il primo passo. Mi sembra una chiave pastorale ancora poco usata. A volte addirittura si opera con uno sguardo selezionatore… i più bravi… i più disponibili…i più presentabili. Toccare un cuore è metterlo al centro cosicché il giovane si accorga che vale. Il cuore vive di desideri: se lo sguardo amorevole degli operatori pastorali è diretto al vero bene, prima o poi il cuore bersagliato da queste attenzioni comincia a rispondere. San Giovanni Bosco in una lettera del 10 maggio 1884 scriveva: «La familiarità porta amore e l’amore porta confidenza. Apri il cuore e i giovani manifestano tutto senza timore, diventano schietti, si mostrano docili. I giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati; chi vuol essere amato bisogna farsi vedere che ama». Ha senso parlare per le nostre comunità di familiarità? Non rassomigliano soprattutto a microimprese?
Il cuore continua ad aprirsi quando sente che la vera intenzione di colui che lo ama è tutta a favore dell’amato. Agli apostoli che domandano «Chi ha peccato, il cieco o i suoi genitori?», Gesù risponde: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio». San Giustino Russolillo vedeva in ogni persona il possibile santo. L’amore disinteressato per i giovani va alimentato con la fiducia nei loro confronti anche quando tutto sembra andare in direzione contraria. Questa fiducia si concretizza poi nel rendere i giovani protagonisti della pastorale; con la fiducia di credere che prima o poi i più giovani sbocceranno in vite luminose. Al centro non ci sono i progetti pastorali ma il mettere in luce i doni dei giovani. Se dessimo più spazio ai giovani? Se li rendessimo protagonisti nelle nostre comunità?
Il cuore sente che vale la pena di aprirsi quando l’invito proviene da chi condivide la vita – Il modo di operare di Gesù verso il cieco nato è indicativo: «…sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco…». Tutte azioni tangibili, di contatto. Eppure il Cristo non ne aveva bisogno. Questa insistenza su gesti così materiali esprime la massima condivisione di Dio per l’uomo: in Gesù Dio si pone a livello della persona ed essa – nella sua essenzialità – è povera, bisognosa. Non si aprirà mai il cuore di chi trova persone sulla cattedra, freddi dispensatori di consigli, terribili programmatori della vita parrocchiale. Il cuore si ri-volge se trova una fonte con le sue medesime frequenze. Il cuore del giovane vivrà per una comunità e si impegnerà per essa se trova un ambiente compatibile. Solo allora il giovane persisterà.
Il cuore si apre quando lo si lascia sbagliare – L’ultimo momento della guarigione del cieco è contraddistinto dall’invio di Gesù: «Va’ a lavarti nella piscina di Siloe». Si trattava di una strada in forte pendenza che portava dal tempio alla vasca di Siloe, sul lato meridionale di Gerusalemme. Difficile da percorrere per chiunque, tanto più per un cieco, sia in discesa che in salita. Andare a Siloe è come voler dire: «cammina, vivi, non temere, certamente cadrai, probabilmente ti farai male, ma continua a camminare perché chi ti ha toccato gli occhi è il Signore». Guardare con amore i giovani, ma lasciarli vivere e sbagliare così da prendere possesso della propria fragilità ma anche del dono ricevuto. Si impara molto più dagli errori. L’importante è che i giovani trovino sempre qualcuno pronto ad accoglierli, a non puntare il dito. Ci siamo riempiti la testa di modelli giovanili, che non esistono. Piuttosto esiste la loro bellissima fragilità. Amare la fragilità nei giovani è amarli. Dopo viene la correzione, e sarà vista come quella di un fratello maggiore.
Diventiamo – riprendendo le parole di San Giovanni Bosco – «tutto occhio per sorvegliare paternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale dei giovani».
Vittorio Zeccone