“D” come “dono”. Lo sappiamo e lo ascoltiamo quotidianamente: siamo la società dell’Io, tutta avvolta nella ricerca esclusiva del soddisfacimento dei propri istinti e bisogni, a qualsiasi costo, a scapito di tutti. Queste radici si sono innestate nella vita quotidiana a partire dalla rivoluzione francese: la libertè è divenuta sempre più indifferenza, e la raison si è specializzatacome tecnica capace di trovare sempre un motivo per seguire sé stessa piuttosto che vivere nel beneficio del dubbio, e cioè che anche dagli altri proviene il bene. Queste dinamiche fanno parte integrante della società consumistica e chiunque oggi fa’ fatica a immaginare un corso del pensiero diverso. Eppure, sul piano della fede, queste modalità, pur concedendo nell’immediato un sollievo al proprio ‘ego’, producono drammi inestimabili al rapporto con il proprio cuore (fatto per amare il prossimo), al rapporto con la propria vocazione cristiana (via d’uscita dal proprio piccolo mondo) e al rapporto con la propria esistenza (alla fine della vita che resterà di questo continuo specchiarsi?). Il salmista si chiede: «Come potrà un giovane tenere pura la sua via?». La risposta è: attraverso un cammino di decentramento. «Osservare la tua parola Signore…, cercarti con tutto il cuore…, meditando i tuoi precetti…, considerando le tue vie» (119,9-16).
Il giovane in particolare vive tra queste due potenti forze: ripiegamento e apertura. Come potrà il giovane credente prendere posizione? Vivere ripiegati ha come effetto la costruzione di giovani manichini: indossare in maniera ossessiva le proprie idee indurisce il cuore e si diventa idoli a sé stessi. Si finisce con l’accettare solo chi ci conferma. E per diventare confermabili bisogna truccarsi, fare i selfie più belli, essere a tutti i costi simpatici, mettersi in mostra, selezionare il piacevole. In questa opzione gli altri non li facciamo essere per davvero, sono come i likes dei social: nulla aggiungono e nulla tolgono.
C’è però l’alternativa. Essa, prima che dalla fede, prende forma dal pensarsi come dono. Essere dono è il motore che spinge a crescere nella vita: donando si creano legami e relazioni che fortificano, che aprono alla possibilità che il bene vinca sul male. Essere dono significa scoprire che una parte di noi è gratuitamente regalata all’altro ed in questo regalo aumenta il valore della mia vita. Nel giovane credente il vivere come dono nasce dall’intuizione di fondo di sentirsi amati da Cristo nella propria fragilità e non per questo scartati. L’intuizione però va approfondita, sostenuta e messa alla prova.
Il dinamismo del dono può risvegliarsi dal torpore egoistico quando si riprende in mano la riflessione sulla vita che, nel suo inizio e nel suo sviluppo, rimane dono. Riceviamo in dono la vita, ed essa rimane sempre svincolata dai nostri programmi. La vita ci comprende e al tempo stesso si supera. Tutto questo però nei giovani non attecchisce più mediante la catechesi, ma occorre pro-gettarli in esperienze autentiche come il servizio agli ultimi e altre forme di contatto con la realtà. Solo dopo viene l’annuncio di Cristo su quanto è stato sperimentato.
Divenire dono – al di là delle note pedagogiche o familiari che ce ne mostrano la bellezza – è il frutto spirituale di una vita vissuta a colloquio con il Padre. Egli dona tutto sé stesso al Figlio e da questi è ricambiato nel dono dello Spirito Santo. Questo movimento alto si concretizza in basso – nella storia – con almeno tre concetti che – a livello pastorale – possono diventare percorsi per i giovani. Si tratta di vie che traggono forza dalla Parola di Dio. Non devono essere i giovani a fidarsi della Parola (verrà dopo!), ma anzitutto i pastori d’anime ed i laici maturi. La fede creativa degli adulti può innescare percorsi virtuosi.
Guardiamo in breve al loro nucleo fondante.
Consumazione – «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua… chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-26). Il processo spirituale del dono si attiva con un atto di coraggio, che gli adulti devono abbracciare per primi. Non si tratta di automatismi pastorali, ma di andare fuori dalle righe per il dono dello Spirito che brucia negli animatori. I primi a perdere dobbiamo essere noi adulti. Non una, ma molte volte. Questo scalfirà l’indifferenza di alcuni giovani che a loro volta potranno contagiare gli altri. Il successo di questa dinamica non sta nel contagio ma nell’effettiva disponibilità a perdere da parte degli adulti nella fede. Se il primo a perdere non è il parroco, il catechista pluridecennale, il superiore pluridecorato… perché il giovane dovrebbe?
Perdizione – «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc 10,29-30). L’atto di coraggio (o di fede) attiva un meccanismo specificamente cristiano: si sperimenta perdita ma non sconfitta, dolore ma non chiusura, povertà ma non resa. Questa certezza che viene dalla Parola di Dio se diventa esperienza interiore porta i giovani a non mollare. Nonostante tutto.
Vivificazione – «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome» (Lc 10,17). Le parole dei discepoli vittoriosi e meravigliati dell’efficacia del loro ministero sono nuova energia che entra nel loro cammino. Così il processo di crescita e conversione non sarà mai il frutto di accurati programmi, ma il dono che viene dall’atto di coraggio e di perdita.
Un’ultima considerazione. Mai lasciarsi prendere dal pessimismo. Non occorrono infiniti doni, basta che in ogni comunità ce ne sia qualcuno.
Vittorio Zeccone