Nell’articolo precedente dicevamo: «fin quando un giovane non scopre la sua missione, la sua vita sarà come uno girare a vuoto». Guardiamo dunque l’altra faccia della medaglia.
Partiamo da ciò che dicono quelli che non sono aperti alla fede.
«Tutto è frutto del caso». Se affermi che la vita è un caso, come fai a spiegare il perchè non tutto ciò che fai ti fa sentire vivo?
«Tutto dipende dai condizionamenti culturali, perché sei nato qui e non lì, hai ricevuto questa educazione e non quell’altra…». Se ritieni che tutto è frutto della cultura e dell’ambiente, come spieghi che in te rimane sempre – quando sei in condizioni di autenticità – un residuo di disponibilità al dono, uno slancio verso chi ha bisogno di aiuto?
La litania di coloro che si fermano alla concezione della vita come un ammasso di cellule e di reazioni psico-chimiche potrebbe continuare. Il punto è: se tutto ha lo stesso valore e le differenze dipendono da fattori esterni, perché la persona non riesce a vivere giorni sereni? Perché, una volta che riesce a diradare la nebbia delle concezioni consumistiche, si ritrova come scaraventato in una piazza vuota, senza alcun passante, o uno chalet a cui rinfrescarsi, o qualcuno con cui scambiare una parola; insomma gli sembra di vivere inutilmente?
Va da sé che di fronte al vuoto i giovani si adeguano al ribasso. Così, quando vivono sentimenti belli li estremizzano: «Dirti che ti amo è un volo dal secondo piano / Un incidente in bici contro un carro armato / E tu sei brava a farmi male, a farmi la guerra» (Frah Quintale, 8 miliardi di persone). E i loro comandamenti più che istruzioni per la vita si trasformano in giustificazioni per la rabbia e la violenza: «Uno: non avrai altro disco di fuori del mio…, due: tutto il quartiere come me frà se ti sto sul c… non dirlo a nessuno; […] quando entro nel club apro più folle di Mosè /zero pane, vino, solo ostriche e moet» (Emis Killa, 10 Comandamenti). Sono solo due esempi di testi di rapper italiani. Inutile perdersi in profonde erudizioni esegetiche. Prima dobbiamo fare i conti con questi modi di pensare e di agire. Per favore dimentichiamoci di candele, luci votive e altro. Proviamo piuttosto a scendere in questa giungla.
Il motore di quanto descritto sommariamente è la noia. Da essa può nascere la spinta irrefrenabile verso il divertimento a tutti i costi. Ma esso, una volta terminato, fa ripiombare nella noia che – solo illusoriamente – può ricoprire il vissuto doloroso del vuoto.
Normalmente i genitori affrontano la noia dei propri adolescenti riempendo la giornata di cose da fare, facendoli passare in modo estenuante da un’attività all’altra e sperando che prima o poi crollino. È questa l’ingegnosa soluzione trovata per sconfiggere l’«ospite inquietante».
A me sembra che se proprio vogliamo accettare la sfida della noia dovremmo tenere ferme due considerazioni: il valore positivo della noia per i giovani e l’utilizzo della via emotivo-relazionale per riempire il vuoto dei nostri adolescenti.
Chi ha detto che la noia sia soltanto negativa? A volte bisogna lasciare che i nostri giovani si cuociano nei momenti “inutili”. Piuttosto che provare a riempirli di cose bisogna costringerli a scavare dentro di sé, dentro le ragioni di quel momento, a guardare a viso aperto quel tempo e ciò che li ha condotti a quel momento. In questo senso la noia è un segnale prezioso che la dimensione spirituale lancia alla vita esteriore: è un invito a riposarsi e a cogliere l’itinerario della propria esistenza. Si pensi alla noia del figliol prodigo, dopo aver sprecato l’eredità in mille divertimenti: soltanto in quella condizione di vuoto egli «rientrò in se stesso» (Luca 15,17). Quando vedo giovani “tardoni” che si illudono di vivere come gli adolescenti, passando da una discoteca ad un aper-spritz, so che stanno solo cercando di sconfiggere la noia.
Per gli adolescenti il discorso è un po’ più impegnativo. Hanno bisogno di cose da fare, ma soprattutto di un fare emozionale, che nasce dal contatto umano. In questo ambito la prima fatica è quella dei genitori che – ahimè – hanno ormai ceduto il loro campo ai giochi virtuali o ai cellulari. Piuttosto bisogna irrompere e scambiare emozioni, condividere sentimenti, stanarli dalla tendenza isolante. A principio sarà dura, si arrabbieranno e vedranno questa come una violenza. Ma è necessario per recuperare l’unico terreno sul quale i genitori possono dire una parola migliore del mondo che circonda i propri adolescenti. È vero che un gioco virtuale è preferibile alla presenza dei propri genitori, ma così cresce quel deserto emozionale nell’adolescente che solo la parola abituale dei familiari potrà contribuire a evitare. Il deserto delle emozioni che poi esplode in noia e in percorsi vuoti è frutto di relazioni familiari con poca empatia, molto formali, tutto molto organizzato, tutto molto arido. Ci saranno genitori capaci di riprendere in mano il loro clima familiare?
In questo contesto annoiato le comunità cristiane possono avere un ruolo privilegiato, purché non si omologhino alle scuole calcio, alle palestre o alle scuole di danza! Le parrocchie devono essere anzitutto luoghi di umanità, di bellezza più che di divertimento; luoghi nei quali la dimensione insopprimibile del calore umano trova un approdo felice. La sfida non è quella di avere più attività della parrocchia vicina, così da considerare la parrocchia alla stregua della palestra più in voga o del locale più cool. Le parrocchie sono luoghi in cui si impara a fare esperienza di Dio. E nell’incrocio di tanta umanità veicolare le energie buone verso opere e segni in favore dei più poveri.
L’icona che può rappresentare quanto appena detto è la parabola degli invitati alle nozze (Matteo 22,1-14): la gioia e il senso vengono dallo stare insieme perché in cammino verso un obiettivo più grande. Quando le realtà cristiane usano gli stessi codici del mondo dei consumi, diventano produttori di noia, involucri vuoti. Se invece saranno capaci di organizzare incroci di umanità avranno ancora speranza per adempiere al ruolo di facilitatrici per l’incontro con Dio.
Vittorio Zeccone