Ad un certo punto della vita il giovane sente di essere in trappola, sperimenta i suoi giorni come un carcere. Egli stesso si percepisce troppo grande per questa vita, inadeguato, a tratti inutile. Molti configurano queste situazioni come noia e non senso; altri cadono in depressione o arricchiscono le fila degli hikikomori, di quelli che si chiudono in camera e rifiutano ogni aiuto; altri ancora hanno bisogno di imbottirsi di qualcosa, virtuale o meno, per cui conta solo il tenersi impegnati. A tutto questo va aggiunto l’iper-protezionismo e le aspettative dei genitori riguardo i propri figli, come pure l’incapacità della nostra società di accogliere e integrare chi non è secondo la “moda” ma risulta solo un po’ goffo. Ovviamente si tratta di problematiche che chiamano in causa molte dimensioni (pedagogica, sociale, istituzionale). Fatto è che questi fattori determinano una gioventù incatenata, incapace di cogliere il modo per cominciare a vivere. Non siamo di fronte a una generazione combattente e ideologica. Per combattere bisogna avere una visione del mondo. Piuttosto sono giovani senza voglia di cercare e di immaginare un mondo diverso. Senza un “altro” mondo questo – per quanto luccicante – stanca e diviene prigione.

Come può un giovane immerso in questo contesto culturale aprirsi ad una dimensione più alta e più bella? Cosa possono fare i pastori di anime perché questi giovani sperimentino la Chiesa come un luogo di liberazione e non di apatia? Un missionario argentino nei Paesi Bassi mi diceva: “da noi i giovani non credono, ma non sono cattivi, semplicemente hanno tolto Dio”. È questo il contesto in cui ci avviamo anche nel nostro paese. Il grande compito non è riportare i giovani in Chiesa ma ridare senso alla domanda su Dio e sul futuro, far intravvedere che quello che hanno non è tutto, e soprattutto che non è la parte migliore; che oltre il mondo dei bisogni c’è un Altro mondo, c’è “il mare fuori”.

La liberazione che deve compiersi è al tempo stesso umana e spirituale: l’apertura a Dio farà sì che la consapevolezza del proprio essere finalmente liberi sia messa a servizio del progetto di Dio.

Tra i diversi racconti di liberazione ad opera di Gesù, scelgo quello del ragazzo epilettico secondo l’evangelista Marco (9,14-29). Le note che seguono – come sempre in questa rubrica – vogliono essere una combinazione di spunti riflessivi e possibili piste operative fedeli ai due pilastri della Rivelazione: parole/riflessioni e opere/segni. Non è obbiettivo di quest’articolo scendere troppo nei dettagli esegetici (liberazione o guarigione?), o storici (vero miracolo o proiezione della comunità cristiana?). Prendiamo il testo come paradigmatico per l’azione di Dio nel cuore dei giovani e nel cuore dei pastori, credendo che in esso il Signore ci ha lasciato gli strumenti per continuare l’opera sua. Come sempre riaffiora un punto centrale: il pallino del gioco è nelle mani del pastore d’anime.  

«Portatelo da me» (v.19) – Sono le parole che Gesù dice alla folla dopo che il padre del ragazzo gli riferisce che i “tuoi” discepoli non sono riusciti a liberarlo. Gesù prende l’iniziativa. I molti tentativi umani non riescono a rendere il giovane di nuovo padrone di se stesso e capace di relazionarsi con Dio. Le strade dell’uomo consentono brandelli di liberazione, ma lasciano incatenata la parte più profonda del giovane. Abbiamo puntato tutto sul benessere, sulla stabilità, sull’indipendenza ma non riusciamo ad intraprendere una strada perché il giovane sia davvero libero, cioè capace di fare della vita un dono. Portatelo da me è un comando per i pastori di oggi a liberarsi di una pastorale ridotta solo alla catechesi ordinaria e ai sacramenti, la cui fiamma va spegnendosi ogni giorno di più. Portatelo da me è l’indicazione alla Chiesa dell’occidente di farsi missionaria, cioè povera e semplice per dare senso al vangelo: non sorprendiamo i giovani perché siamo come il mondo che già posseggono. Portatelo da me è un richiamo al coraggio di ogni pastore ad essere profeta nella città multietnica e multiculturale mediante gesti di rottura: una Chiesa ingessata e innamorata dei propri schemi si avvicina sempre più a una tradizione vuota e ad un museo della memoria individuale. Ogni liberazione parte dal coraggio di chi prende sul serio la questione giovanile, non dalle cattedre dei pulpiti ma immergendosi umilmente nel fango delle loro vite.

«Da quanto tempo gli accade questo?» (v. 21) – A prima vista la domanda sembra inopportuna, più da medico nella sua fase di anamnesi che da Figlio di Dio nel momento precedente il prodigio della liberazione. Siamo capaci di leggere i segni dei tempi? Disposti a mettere in discussione i nostri approcci? Non ci siamo stancati di celebrar Messe staccate dalla vita? Di amministrare sacramenti per soddisfare il bisogno dei numeri? Di approcciare ai giovani come qualcosa che devono darci, piuttosto che capire come far arrivare a loro il dono grande della vita con Dio? A Gesù non interessa conoscere da quanto il giovane è in questa situazione, piuttosto rendersi conto se la prigionia del giovane abbia ormai imprigionato anche chi è chiamato a essere strumento di liberazione. Qual è la prima cosa che un prete chiede a un giovane che passa per la parrocchia? Se non frequenta cominciano gli inviti affettati o le paternali moralistiche; se frequenta sfoggia il codice dei doveri di frequentare la sua parrocchia. E così elude l’unico vero compito richiesto ad un pastore d’anime: accendere nel cuore del giovane il desiderio del meglio e del sublime. Da quanto tempo ti accade – caro prete – di essere prigioniero di questo demonio?

«Tutto è possibile a chi crede» (v. 23) – Gesù richiama il padre – ed ogni educatore – ad una fede matura. Anzitutto una fede verticale che si fonda sulla certezza che Dio guida il mondo e a Lui ogni giorno affidargli quello che non siamo più capaci di compiere. Ma anche una fede orizzontale che chiede ad ogni operatore pastorale di continuare a pensare, tentare, sperimentare e pregare perché la Via del Signore incroci le vie dei giovani. “Queste possibilità” Dio le concede a chi veramente ripone fiducia in Lui. Va da se che queste parole del Signore sono un esame di coscienza per la nostra fede, per la fede delle nostre comunità e delle nostre attività.

Il cuore del giovane desidera di esser libero dalla prigione in cui si è rinchiuso. Ma per poter cominciare a combattere e accogliere l’azione di Dio necessita di vedere un sacrificio donativo e un amore disinteressato da parte della Chiesa.

Vittorio Zeccone