“F” come “fragilità”. Tocchiamo un punto nevralgico della crescita umana e spirituale dei giovani. La fragilità rappresenta una condizione dell’essere umano e al tempo stesso un incrocio di fronte al quale possono aprirsi strade meravigliose o derive terribili. Tutti siamo fragili, ma la vera forza matura dalla debolezza, purché la fragilità non si trasformi in rassegnazione o accidia. Riflettere ed elaborare strade pastorali su questo tema ha un immenso valore per la crescita dei nostri giovani. In tempi nei quali è di moda la forza, la competizione sfrenata che non perdona alcuna debolezza, il muscolo sempre tirato e da mostrare, è il caso di riscoprire la virtù della fragilità. Essa appartiene a tutti, è insita nella natura umana. I giovani però tendono a dissimularla con qualche atteggiamento da bullo o con forme di violenza gratuita. La fragilità aiuta a scoprire davvero chi siamo: ci porta dentro noi stessi, facendoci scoprire la luce della condivisione. Fragile sono Io, ma fragili sono anche gli Altri. E se ci riconosciamo come tali sarà più facile stare insieme, avanzare insieme. La fragilità è l’uomo stesso. E negarla significa sprecare un pezzo essenziale della nostra persona. In una parola: tutto è fragile! È fragile un’idea di cui eravamo convinti fino all’arroganza e alla supponenza; è fragile un sentimento che col tempo sbiadisce in maniera implacabile; è fragile una speranza che crolla per mancanza di forze che servirebbero a trasformarla in realtà; è fragile anche una certezza che crolla sotto i colpi di un soffio, specie se ha le basi deboli. La Scrittura ha racchiuso tutto ciò in meravigliose parole: «I giorni dell’uomo sono come l’erba; egli fiorisce come il fiore dei campi; se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più e non si riconosce più il luogo dov’era» (Salmo 103). E anche: «O Signore, che cos’è l’uomo, perché te ne prenda cura? O il figlio dell’uomo perché tu ne tenga conto? L’uomo è simile a un soffio, i suoi giorni come l’ombra che passa» (Salmo 144). Sapersi fragile e mortale è l’inizio della saggezza, dell’arte del vivere bene, individuando, rispettandoli, i propri limiti. La sapienza biblica ce lo dice fin dall’inizio: all’uomo Dio ordina «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché nel giorno in cui te ne mangerai, certamente dovrai morire» (Genesi 2). In altre parole: se vuoi gustare la vita, ricordati che non sei Dio, ma che sei stato creato, ciò che sei lo hai ricevuto in dono.
Ma le domande a cui ci interessa rispondere in questa sede sono: In che modo la fragilità è vissuta nelle nostre comunità pastorali? Quali percorsi sono possibili perché la fragilità diventi leva per l’incontro col Signore Gesù? E soprattutto: Cristo, con il suo messaggio, è un anestetico o una vitamina per la vita dei giovani? Lasciamoci illuminare ancora una volta dalla Parola di Dio.
Imparare a conoscere e a chiamare per nome le proprie fragilità – San Paolo scrive: «Egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2 Corinti 12,9). Una comunità che ha cura delle anime ha il compito di mettere i giovani nella condizione di conoscere se stessi, nell’intima profondità della propria anima, laddove si trova l’immagine di Dio. Non infinite pratiche fine a se stesse, ma la capacità dei pastori di coniugare una dimensione liturgica che esprima il mistero e un ascolto attento e personale dei giovani. Normalmente siamo di fronte a liturgie stropicciate o vissute come un revival dei tempi che furono, senza che i giovani abbiano le categorie spirituali per entrare in esse. Un pastore d’anime deve aver cura che ogni anima riceva il giusto tempo, si racconti, e trovi pian piano la capacità di esprimere le proprie fragilità. D’altronde, il vero nemico della vita spirituale non è la passione, e neppure il vizio, ma piuttosto la superficialità, l’ignoranza circa le profondità del proprio cuore. E questo è vero dei giovani come degli operatori pastorali. Abbiamo un po’ tutti trovato collocazione sulle frequenze dell’effimero. Significative al riguardo le parole di Thomas Green: «Molti dicono che è estremamente difficile conoscere Dio… Questo è vero, naturalmente, ma io sono giunto alla convinzione che l’ostacolo più grande ad una vera crescita nella preghiera non è la natura intangibile di Dio ma il fatto che non conosciamo sufficientemente noi stessi e non vogliamo nemmeno conoscerci per come siamo veramente».
Imparare a condividere le proprie fragilità – «Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Corinti 12,10). Una volta conosciute le proprie fragilità il giovane necessita di un ambiente capace di accoglierne la sua condivisione, senza giudizi o prese di posizioni. E qui ritorna il tema di riorganizzare la nostra pastorale giovanile che molti hanno delegato solo alle scienze umane. Piuttosto piccole comunità vive, in cui si fa’ e si condivide, che permettono ai giovani di trovare la confidenza per comunicare le proprie fragilità. Se tale condivisione trova il riscontro nella condivisione delle fragilità altrui si assiste al meraviglioso processo di energie nuove e rafforzate che si mettono al servizio della comunità. Vita nuova che non nasce dalle capacità ma dalle fragilità. Anni fa’ conobbi un brillante giovane che aveva fatto del superamento dei limiti il suo obiettivo di vita e al tempo stesso aveva trovato questa via per mascherare le proprie fragilità fisiche, caratteriali e di esperienza. Quando poi egli ha incontrato Cristo – mediante un profondo cammino di preghiera unito a continui confronti spirituali – si è liberato di quella maschera e ha abbracciato la sua fragilità, professandola senza paura, condividendola prima che il falso mito dell’uomo lo riconquistasse. Lentamente quel giovane è diventato una persona bella e saporita, forte nonostante le tante prove a cui la vita lo sottoponeva. È diventato testimone di ciò che fa’ l’amore di Dio e Dio era sempre sulle sue labbra, nei suoi pensieri e nelle sue azioni. Una sera, dopo aver fatto una partitella a calcetto, rientrato negli spogliatoi, chiede ai suoi compagni di pregare un Padre nostro. A tutti sembrava strano. Ma quello era diventato il suo stile di vita. Dopo la preghiera si accascia a terra e muore stroncato da un infarto. È morto con Dio, morto con la Vita. Mentre spesso nei nostri percorsi di pastorale giovanile celebriamo i trionfi dell’uomo, chiudendo la porta al Signore che invece desidera servirsi della nostra fragilità.
Imparare a coniugare le proprie fragilità con i propri desideri – «Allo stesso modo lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Romani 8,26). La consapevolezza e la condivisione delle nostre fragilità all’interno di una comunità parrocchiale sana conduce il giovane ad entrare nella vita reale. Le leggi della vita si reggono su un delicato e complesso equilibrio di limiti tra due oscillazioni possibili: al di qua e al di là di esse non c’è vita, stabilità, progettualità. Senza limiti non ci può essere ordine e stabilità. Nel libro della Genesi la creazione viene descritta come una serie di limiti posti da Dio e tali confini consentono alle varie forme di vita di svilupparsi. Riconoscere le proprie fragilità non significa penalizzare il desiderio, ma anzi costituisce l’unica maniera possibile di concretizzarlo. La virtù della fragilità, affrontata sapientemente e accompagnata spiritualmente, conduce finalmente a prendere decisioni, a saper scegliere. D’altronde la fatica, la sofferenza e la prova che scaturiscono dalla considerazione delle proprie fragilità non dicono di per sé che è inutile desiderare, ma che ogni cosa ha un prezzo e che è importante sapere su cosa investire la propria vita. I no che la vita ti dice sono segnali per cogliere la giusta direzione. In questa dialettica tra desideri e fragilità le comunità cristiane devono saper inserire il ruolo dello Spirito Santo che può illuminare le nostre profondità e dare ad ogni giovane l’umiltà per accettarsi e accogliere una strada nuova. Ma ciò sarà possibile se i nostri centri di aggregazione pastorale smetteranno di voler imitare il mondo ma riacquisteranno l’originalità che viene dal vangelo, che ad ogni giovane ricorda le parole di Gesù: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Matteo 9,12).
Vittorio Zeccone