“C” come “crescere”. Affrontiamo qui un tema propriamente giovanile. Per «crescita» si intende il percorso umano e sociale che porta la persona a raggiungere la consapevolezza di ciò che è e del suo posto nel mondo e di formarsi gli strumenti necessari per raggiungerlo e mantenerlo. Se è vero che il processo di crescita dura tutta una vita, esso si specifica in modo decisivo nella giovinezza poiché è in questo tempo che le strutture della persona sono alquanto elastiche. Tuttavia la crescita di una persona è un processo multidimensionale in cui incidono tanti fattori, ognuno dei quali con un suo percorso e una sua storia. Se oggi ci ritroviamo generazioni di giovani indecisi è anche colpa degli adulti che hanno sottolineato certi aspetti (bisogni materiali, salvaguardia dai pericoli) piuttosto che altri (dare responsabilità, accrescere l’autostima). Le scienze umane parlano di tantissimi giovani affetti dalla «sindrome di Peter Pan»: essa descrive l’atteggiamento di chi rifiutandosi di crescere, di assumersi responsabilità e di fare delle scelte si blocca in un periodo infantile della vita. La conseguenza è avere molti giovani in bilico tra l’incapacità di amare (chi lo doveva insegnare?) e la ricerca di emozioni forti (qual è la misura delle cose?). Se aggiungiamo poi il contesto globalizzato e iper-connesso in cui viviamo il quadro che circoscrive il tema della crescita è ampiamente abbozzato.
Non è impresa di quest’articolo affrontare un tema così grande, né ovviamente si vogliono eludere i compiti che ognuno ha nell’aiutare i giovani in tale percorso. Tuttavia a partire dal vangelo si possono enucleare delle chiavi di sviluppo da consegnare ai giovani durante la pastorale e al tempo stesso delle piste per giovani desiderosi.
«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mc 3,33). Le parole di Gesù quando i suoi familiari lo cercano indicano un aspetto centrale: crescere implica un distacco emotivo dagli oggetti infantili, che invece devono diventare parte di sé. Pastoralmente questo significa: aiutare i giovani a non idealizzare più alcuna figura (a partire dai genitori), ma stare accanto a loro perché scoprano la realtà così com’è: storta, ambigua, deludente. In questa storia è nascosta l’originalità con cui stare al mondo. Gesù non rifiuta sua madre e i suoi familiari, solo li inquadra in uno sguardo più ampio dove anzitutto c’è la sua personale missione. Così ha fatto con i suoi apostoli: li ha formati per poi inviarli senza di Lui, ma carichi di Lui. Similmente il giovane deve accogliere la realtà senza lasciarsi traumatizzare, tirando fuori il buono da ogni situazione e sistemando ogni vicenda nel quadro della sua personale missione. Ogni vita è una chiamata ad una particolare missione. Tenere lo sguardo rivolto al fine e non agli eventi.
«Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Gesù risponde in questo modo a sua madre che lo ritrova dopo tre giorni nel Tempio a discutere con i dottori della legge. Un motivo di angoscia per i suoi genitori, un motivo di crescita per Cristo. Crescere è tentare strade nuove, osare di ascoltare qualcosa che abita nella profondità di ognuno di noi. Mentre per Cristo tutto ciò è una conseguenza naturale della sua intimità col Padre, per i giovani questo percorso va incoraggiato nonostante errori e tentativi maldestri. E qui ritorna il compito educativo anche dei pastori e degli operatori pastorali. Agli adolescenti che frequentano gli anni di catechismo come i corsi di preparazione alla cresima è necessario affiancare persone che oltre a dare contenuti abbiano la passione di insegnare ad osare. Dei maestri non ricordiamo le cose che ci hanno insegnato, ma come hanno svolto il loro compito. Pastori-impiegati, catechisti svogliati, comunità abitudinarie sono degli anestetici per il cammino di ricerca in cui ogni giovane è impegnato. Di esempi positivi ce ne sono molti. Mi piace ricordare la figura di San Giustino Maria Russolillo: fin da seminarista raccoglie adolescenti semplici del suo quartiere e insegna loro il catechismo. Molti di quei ragazzi più che i contenuti erano ammaliati dallo zelo di quel giovane poi diventato loro parroco. Così molti desiderano crescere, fare qualcosa di bello e di grande. Avevano il fuoco dentro, ma hanno dovuto essere aiutati da chi credeva in loro.
«Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10,37). Con queste parole Gesù conclude il racconto della parabola del buon samaritano. Egli indica al dottore della legge cosa fare per avere la vita eterna. Il «fare» non è tanto nelle cose quanto verso le persone, non consiste nell’accumulare trofei quanto nell’allargare le relazioni grazie al dono di sé. Il samaritano era già condannato dalla storia, ma ciò non ha spento in lui la carica di bene che la mentalità giudea voleva invece sopprimere. Crescere è lasciare che le proprie energie passino attraverso il setaccio delle fragilità altrui facendosi aiuto e sollievo per i meno fortunati. Qui l’idea di crescere manifesta il suo motore interiore: si cresce a contatto con l’alterità, in particolare con la diversità, con la povertà. Crescere è un processo di contaminazione del «pieno di sé» con il «povero»: tale incontro purifica e volge al bene quelle capacità di ognuno che – lasciate a se stesse – finiscono nel tritacarne delle logiche ambiziose e di potere. «Crescere» non è una scalata, ma una discesa nell’umanità che ogni giorno fa i conti con la propria fragilità.
Ogni giovane può crescere. Si può. Consideriamo cosa possiamo fare nelle nostre comunità perché questo avvenga, piuttosto che continuare a mettere un abito educativo che poi risulta una camicia di forza.
Vittorio Zeccone