È ormai diventato un ritornello definire la gioventù come generazione vuota, sfiduciata, e – conseguentemente – inferiore alle generazioni passate. Quando poi si guarda il versante della fede queste espressioni diventano ancora più sentenziose: ‘giovani senza Dio’, senza stimoli, disincantati.
Al tempo stesso però non pochi sono gli studiosi che sottolineano come tali definizioni sono immature analisi della realtà. Cristina Pasqualini dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – solo per citarne uno – ricorda: “Non è tanto importante il ruolo della persona che i giovani incontrano per riavvicinarsi alla fede, ma il tipo di persona che incontrano. I giovani hanno assolutamente bisogno di figure guida, di persone che siano autorevoli ma non autoritarie, e che siano anche amorevoli”. Indubbiamente aiutare i giovani a formarsi la capacità di orientarsi è compito anzitutto dei genitori. Se essi sono capaci di orientare i figli, al di là dell’adesione esplicita o meno ad una fede, trasmetteranno loro la capacità di continuare a cercare anche quando hanno perso la bellezza della fede. È ormai tramontata l’epoca di una comunicazione educativa gerarchica e istituzionalizzata. Questo non fa’ più breccia nei giovani. È tempo di rimettere al centro una comunicazione emotiva, nuova nel linguaggio e nella reale attenzione ai loro bisogni. I giovani sono lontani perché nessuno davvero osa metterli al centro della propria vita, nessuno sta’ con loro senza giudicarli, cercando di comprenderli senza secondi fini. La crisi della gioventù è in realtà crisi della famiglia, crisi delle agenzie educative e quindi crisi anche della Chiesa.
Guardiamo per un istante nel nostro orticello (quello della Chiesa): dove sono i progetti che esprimono un autentico servizio ai giovani? Dove i percorsi che testimoniano, non in modo estemporaneo, che i giovani sono preziosi a prescindere dalle risposte che danno alle nostre sollecitazioni? Non è forse vero che spesso li abbiamo utilizzati ma non li abbiamo serviti? Che siamo andati avanti con didattiche errate? Che volevamo i giovani nelle nostre chiese ma senza offrire loro una testimonianza autenticamente cristiana?
Vale la pena ricordare che con i giovani non si può barare! E noi lo abbiamo fatto, non una ma moltissime volte. Non dico per cattiva coscienza… ma di fatto abbiamo barato. Ancora: con la scusa di una fede-cauzione abbiamo moltiplicato i ‘doveri’, i ‘divieti’ e le ‘delimitazioni’ all’agire giovanile che per natura e per energia psichica è invece il periodo più irrequieto ed esplorativo di un’esistenza.
Senza prolungarci oltre, possiamo concludere: siamo messi male!
Queste pagine mensili non sono quindi un discorso fatto “ai grandi”, ma un appello accorato e cordiale ai giovani. La fondatezza di questo appello si radica nella convinzione che non può mai morire in loro – come in ogni uomo – la spinta “al più e meglio”, la foga di sperimentare e di trovare solide basi. Questo non lo dice il catechismo, ma la struttura costitutiva dell’essere umano che è alla ricerca costante di una stabilità sensata e serena. La persona non nasce con il desiderio della ricchezza ma della serenità. I bisogni del giovane sono quelli iscritti nella natura di tutti: di riconoscimento, di affiliazione, di realizzazione. E la giovinezza è il tempo in cui tale desiderio si esprime ad ogni latitudine. D’altronde, per quanto sia tumultuosa e avventurosa la giovinezza è un tempo limitato e solo nella misura in cui esso viene ben vissuto il resto della vita si declinerà in modo organico e sereno. L’identità e la base dei giovani si formano attraverso le risposte che riescono a dare all’incertezza. Ma per rispondere bene i giovani devono essere messi al centro.
Nel mio ministero di sacerdote molte volte ho accompagnato giovani a riprendere in mano la propria vita. Molti ci sono riusciti. Ma quando tale cammino inizia tardi, si portano sempre significative ferite, parti strutturali più deboli. La più bella confessione che un prete può ricevere è questa: “Padre, se ti avessi conosciuto prima!” E chi doveva starci dove stava? E se pure c’era, in che modo ci stava?
Per questo vale la pena cantare ancora una volta l’inno della giovinezza, perché è in essa che si scrive il futuro. La giovinezza, che è il tempo più combattuto nella ricerca della propria identità, è anche il tempo più esclusivo e significativo, quello da cui dipende il grosso degli anni che si vivono.
Una leggenda ebrea descrive il momento in cui Mosè sta per morire e Dio rivolge all’anima che vive in lui queste parole: “Anima, 120 anni ti avevo assegnato da vivere dentro il corpo di questo sant’uomo. Non indugiare più, anima. È giunta l’ora”. A quest’invito l’anima oppone resistenza e risponde: “Tu mi hai creato e posto nel corpo di Mosè: esiste forse al mondo un corpo più puro e immacolato e santo di questo? Sto bene qui, non voglio andare via!” Ma l’Eterno ripete: “Non indugiare, anima, te l’ho detto, la tua fine è arrivata…”. Ma l’anima indugiava ad uscire, e allora Mosè stesso congedò l’anima sua con queste parole: “Torna, anima mia, alla tua pace, perché il Signore è stato buono con te!”. E fu così che Dio prende l’anima di Mosè baciandolo sulla bocca e piange. “Non piango per Mosè – spiegò il Signore – ma per ciò che i figli d’Israele hanno perduto con la sua dipartita”.
Ci lasciamo con questo racconto e questo stimolo. Conviene sfruttare bene questo tempo che è la vita. Conviene provare questa caccia al tesoro di cui senti l’impulso dentro anche quando vivi distrattamente o fai stupidate, anche quando sei nei fumi dello spinello o di qualche altro diversivo in cui cerchi oasi di serenità. E nella prossima puntata guarderemo da vicino l’Alfabeto del giovane.